27 marzo 2004

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grazie.
Per l'adrenalina, per avermi aiutato a dimostrare il valore delle piccole cose, per avermi recapitato l'amore, per avermi fatto incontrare persone simpatiche, per avermi aiutato ad allacciare rapporti con le istituzioni e per mille altre cose che dentro di te ti hai visto accadere e che con te se ne andranno in segreto.

Per le donne alle quali hai offerto un letto e per tutti coloro ai quali hai offerto un tetto.
Compreso quell'ultimo inquilino che ha trovato in te una casa ma che, mio malgrado, dovrà andare a dormire da un'altra parte.
Grazie per il topo.
E per il formaggio.
Ma questa la capirà solo l'unica donna da cui ti sei fatta guidare.

Non ho avuto scelta.
In questo mondo non c'è più spazio per le piccole cose.
Mi hanno vietato di portarti a spasso.
Hanno detto che non valevi abbastanza.

Se sapessero.
Questo blog osserverà tre giorni di silenzio.

19 marzo 2004

19 marzo 2001

Mario alla fine aveva davvero imparato a stare in equilibrio nel treno, perché ne prendeva uno ogni venerdì sera e andava da Mario Senior e uno ogni domenica sera per tornare da Lady Mària ed erano stati proprio tanti treni e allora lui aveva alla fine imparato a starci in equilibrio anche se poi non lo avevano chiamato sull’astronave lui però intanto aveva imparato a stare in equilibrio su quei treni che non era cosa da poco quando era così piccolo.

Mario quando andava da Mario Senior se pioveva giocava a monopoli e a scacchi e se c’era il sole bruciava le mosche con la lente di ingrandimento per i libri di Mario Senior che lui era sempre pieno di libri e di fogli e di matite e cartelle e di foto e di progetti e di sogni e di presunzioni.
Mario non lo sapeva che Mario Senior non gli avrebbe mai dato la Giulietta grigia quando sarebbe diventato grande, perché non lo sapeva che Mario Senior non ci sarebbe più voluto andare alle sue feste dei compleanni.
Mario però era contento lo stesso perché Mario Senior gli aveva regalato la macchina bella che aveva e se non l’aveva mai avuta era perché era lui ad essere troppo piccolo ma quella macchina era sua però.

Mario Senior aveva insegnato a Mario a scrivere quelle parole in cinese con il pennellino e anche se erano solo tre non aveva importanza e Mario era contento lo stesso e una di quelle tre era “Grande” una era “Uomo” e la terza era “Albergo”.
Mario pensa che Mario Senior gli abbia insegnato solo quelle tre perché c’era un motivo e allora andava bene lo stesso ed era bello lo stesso perché Mario poteva dire una bella cosa e poteva anche scriverla con il pennellino.
Mario Senior un giorno però è andato via ed è andato a scrivere con il pennellino dove tutti scrivono con il pennellino e andavano tutti sulla bicicletta e a Mario ogni tanto gli mandava le parole scritte con il pennellino però non andava mai a trovarlo più perché era tanto lontano.
Ma Mario era contento lo stesso perché lui aveva le parole scritte con il pennellino e allora era come avere anche lui anche se non era vero.
In fondo Mario da piccolo quando giocava ai cowboys lui faceva gli indiani e loro dicevano che Mario Senior era lo stesso vicino a lui se lui lo pensava e lui voleva e allora lo pensava come dicevano loro, perché se no non poteva più fare gli indiani quando giocava.

Mario quando gli chiedevano dov’era Mario Senior lui diceva sempre in Cina a scrivere i libri con il pennellino e tutti pensavano che lui sognasse e scherzasse perché non voleva dire che non ce l’aveva ma Mario ce l’aveva e lo sapeva che ce l’aveva lontano ma anche vicino però.
Mario un giorno che tutti dicevano che era la festa del papà lui pensò a Mario Senior che era un po’ lontano quel giorno e che non sapeva come stava.
Mario non avrebbe mai immaginato che quel giorno, dopo tanti anni, proprio quel giorno la zia Mària gli avrebbe telefonato per dirgli che Mario Senior non scriveva più con il pennellino.
Mario allora quel giorno ha detto che forse Mario Senior non scriveva più però parlava ancora perché lui ce le aveva tutte le parole scritte con il pennellino che gli aveva mandato e se lui le sentiva ancora voleva dire che Mario Senior le diceva ancora.

E allora Mario è contento perché oggi che tutti dicono auguri ai Mari Senior anche lui può dire auguri a Mario Senior, perché è lontano e lui lo sa che non può tornare perché è lontano.
E anche se non sa dov’è sa che è ancora più lontanissimo di prima e allora Mario non deve fare altro che quando dice auguri deve dirlo un po’ più forte, come quando è capace a dire le cose forti che poi sono quasi sempre, adesso che Mario è cresciuto, “Grande”, “Uomo”, e ogni tanto anche “Albergo”.
Anche se Mario oggi le scrive con il computer.




14 marzo 2004

Marrakech

C’è una sedia vuota al mio tavolo. Come spesso accade. Ci potrei far accomodare il mio compagno di viaggi libro.
Non avevo voglia di mangiare con gli altri quella sera. Troppo italiani, troppo azienda, troppo chiassosi. In fondo il mio lavoro l’avevo terminato, potevo concedermi il mio tempo e dedicarlo tutto a me.
Trovo folle quando sono in paese così bello, circondarmi di italiani. Impoverisce il sapore del mondo intorno.
Che silenzio in quel ristorante. Un bel silenzio. Un cameriere elegante mi chiede in francese, sottovoce, una roba che non capisco, visto che io non parlo francese, ma in fondo, se sei abituato a viaggiare, riesci sempre a parlare in qualche modo.
Il risultato di quella elegante chiacchierata è una buonissima zuppa tipica di marrakech, come desideravo. Volevo assaggiarla vera, certo che quella del buffet dell’albergo il giorno prima preparata per trecento persone non fosse quella vera. Avevo ragione. Intanto Chatwin mi racconta di quando l’hanno fatto prigioniero perché trovatosi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Bella coincidenza quelle pagine. Non sapevo ci avrei letto l’Africa e il suo parlare francese. Lo rendeva ancora di più compagno di cena. Intanto nella sedia accanto ci facevo accomodare immaginari ospiti che avrei voluto li con me. Piacevoli sorprese sedute su quella sedia mi fanno capire che a volte quando si ascolta l’immaginazione si scoprono un sacco di cose che si tende a negarsi o che semplicemente a volte non si ha l’occasione per scoprire.

Mi sono scoperto ad ospitare persone che mai avrei immaginato di volere accanto a me in quel momento. E piacevolmente scopro che forse ho perdonato più di quanto riesca ad ammettere a me stesso.
Sai, se mi leggessi saresti stupita di sapere che tu, davvero proprio tu, dopo anni, mi hai tenuto compagnia in una notte marocchina. Io mi sono stupito di vederti li con me. E poi hai lasciato il posto a mio padre, perenne viaggiatore in posti lontani, Quanto di lui c’è nel mio amare il viaggio. Chissà, magari una sera a marrakech me lo vedrò davvero spuntare al ristorante. Credo che non diremmo niente sulla sua organizzata scomparsa. Credo gli dirò solo “Siediti, e ascoltami, ho da raccontarti i miei posti del mondo e voglio ascoltare i tuoi”. E poi tu. Che come sempre mi hai accompagnato lontano, che come sempre hai reso più belle le serate lontane, che diventi così bella alla luce dell’Africa. Ti porterò in giro per il mondo. Ti mostrerò colori che non conosci e profumi che ignori. Ordinerò per te i piatti più buoni e ti verserò vino Kzar portato da un cameriere berbero.

La signora di fronte a me, fugge per un attimo lo sguardo del marito per regalare a me a ai miei immaginari compagni di cena un delicatissimo “Bon apetì”. Le sorrido. Non so come si risponde in francese, ma so che ha capito che è un gentile grazie, il mio.
Nei posti da fiaba i ristoranti non hanno pareti, ma vetrate, e le candele sui tavoli non servono a creare romantici effetti all’interno, ma semplicemente a non oscurare l’esterno, quando quell’esterno è una notte di palme e lanterne. C’è silenzio in quel posto. E si può leggere di paesi lontani immersi in paesi lontani. È un effetto strano. Fa sentire bene. Per un attimo hai diviso con me quella cena. Volevo farti vedere le lanterne tutto intorno e ti ho portata li accanto a me. Una sala con quattro tavoli in mezzo a centinaia di palme e stelle. A marrakech le fiabe sono così, non hanno bisogno di parlare del passato.
Sei bella, sai, tra i fiori del Marocco. Ne hanno ovunque. marrakech è un’oasi e ci tengono a farlo vedere riempiendo di fiori e arance ogni angolo. Non so cosa mi arriva offerto dalla cameriera, ma è buono. È una specie di uovo crudo caldo con qualche spezia, da bere in un bicchiere caldo per iniziare la cena. Chiedo scusa a Chatwin e chiudo il libro. Non ho voglia di leggere. Ho voglia di guardarmi intorno. E vedere te.

È per questo che quando sono lontano mi piace mangiare da solo.
Mi da la possibilità di guardarmi dentro e inventarmi momenti in due con chi ogni volta mi fa sentire il desiderio di dividere la mia fortuna di viaggiatore. Mangiare da solo non è triste. Mangiare da solo è semplicemente il giusto silenzio per gustare sapori lontani, per sentire odori lontani e colori lontani.
Mangiare da solo, a marrakech, mi da la possibilità di avere seduti accanto a me i miei sogni e quegli occhi lontani che, tornato in camera, dopo una passeggiata tra palme, stelle e lanterne, si chiudono insieme ai miei.

Vicino a me, ogni notte.
Ovunque io sia.

4 marzo 2004

Proserpina

Stasera volevo vedere il festival, ma visto che poi Proserpina mi cazzia non lo faccio, e, visto che lei oltre alla cazziata non si è minimamente sbattuta per trovarmi un’alternativa, io mo la frego e parlo di lei.

Che poi a lei non so se farà piacere, ma tanto se lei è lei, io sono io, e di quello che può far piacere o meno, come è noto, me ne sono sempre fregato.

Proserpina la riconosci quando sali su un treno perché lei c’è.
Sempre.
Lei prende treni.
Noi caffè la mattina, lei treni.
Passa metà della sua vita a fotografare la sua Puglia e l’altra metà a portare in giro le foto, su rotaia.
È a spasso per l’Italia così tanti giorni all’anno che il suo è l’unico blog itinerante, visto che inspiegabilmente non smette di scrivere, né di viaggiare, nemmeno un giorno all’anno.

Proserpina, poi, è anche il nome di una cartella nel mio computer che contiene tante foto di tante tette che un giorno misi da parte perché lei chiese di disegnarle un logo che aveva un sacco di caratteristiche, e cioè doveva avere le tette e le mani, e io quel giorno, non avendo una macchina digitale per fotografarmi le mani, iniziai intanto a raccogliere foto di tette che ancora oggi conservo con un pizzico di nostalgia, anche.
Oggi ho comprato una macchina digitale.
Difficilmente abbandono un sogno.

Proserpina un giorno passò da Milano e venne a trovarmi, ma essendosi messa come al solito pessimisticamente d’accordo col suo amico al quale aveva detto “Tra mezz’ora chiamami e dimmi che hai anticipato l’orario”, fu costretta dalla trappola da lei stessa creata a tornare il giorno dopo, giorno che segnò, avendomi visto anche col sole tra banchi di mercato e basilico per il pesto, il definitivo tracollo di qualsiasi sua capacità di controllo su se stessa, nonostante si ostini a dire il contrario.
Mi amò da quel giorno in poi.
Le regalai un fotogramma del mio film con tanto di autografo perché mi sembrava doveroso verso una mia così preziosa fan.

Proserpina si diverte un sacco a riempire il suo blog di lettori per poi, ogni tre settimane, minacciare di scomparire perché in preda ad ascesso da eccesso di accessi, per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Anche sua mamma ormai ha imparato e si limita a comprare qualche bottiglietta di Bacardi Lemon in più in quei periodi, certa che l'alcol sia la giusta soluzione alle notti e notti in cui è costretta a rimanere sveglia per colpa dei Carmina Burana che in ognuno di questi periodi, puntualmente, riempiono di gioia le notti di casa Proserpina.

Proserpina un giorno mi chiese un regalo per il compleanno, ed essendo lei la presidentessa del mondo dei blog, e io (in quanto a bellezza) la Marilin Monrò dello stesso mondo, le regalai un “Eppi bordei” che purtroppo ancora non avevo la macchina digitale, perché se no un bel filmatino d’archivio per i prossimi vent’anni di tivvù non ce lo levava nessuno.
Mi amò pure di più da quel giorno in poi.

Proserpina vanta poteri paranormali, anzi, direi millanta.
E io che ci sono cascato perché sono credulone, ogni volta che ho un sogno erotico che la riguarda, spesso generato da quelle foto che ritrovo casualmente nella cartella che porta il suo nome, la chiamo per dirglielo facendo in modo che lei mi prometta di usare quei poteri per venirmi a trovare in sogno.
Mi preparo per la notte, ogni volta, mi lavo tutto tutto, cambio le lenzuola, mi metto anche un po’ di profumo e aspetto, in genere finchè la Clerici non mi sveglia urlando “Pronti, cuochi, via!”.
Ma io non dispero.
Perché lei dice che è vero e allora penso sempre che quella notte aveva di meglio da fare.
Anche se mi chiedo cosa.

Proserpina una sera mi invitò ad una festa di suoi amici e io andai solo perché volevo vedere lei e dato che andai solo per lei, a lei mi incollai a cozza e, anche se per poco, alla giusta distanza.
Dopo quella sera affinai le mie chiavi di ricerca per trovare le immagini relative al logo di cui sopra.

Proserpina quella sera mi disse “Sono contenta di vederti”.
E io risposi “Anch’io”
E poi scomparì tutta la notte con un altro.
Ma io ero contento lo stesso perché l’avevo vista e soprattutto perché mi aveva lasciato insieme alla sua amica che in quanto a “Sono contento di vederti” non aveva nulla da invidiarle.
Sarà la Puglia.

Proserpina ancora oggi mi parla ogni tanto ma un po’ meno di una volta, perché adesso la tigre di notte la fa davvero e io che sono uomo lo so perché non sta più tanto a giocare col telefono.

Proserpina dice che vuole fare la giornalista, e dato che qualcuno un giorno le disse che per fare la giornalista bisogna avere tanti nemici politici, lei continua da quel giorno a scrivere sia sul giornale della sua città che sul suo blog che il sindaco (perché lei punta in alto già da subito che così non si perde tempo) non accetta che sul giornale della città scriva una che sul proprio blog parla male sia della sua città che di lui, e lei, sia sul suo blog che sul giornale, dice che lui non sa leggere e quindi non ce la poteva avere con lui, né sul giornale, né sul suo blog.

Proserpina si batte perché possa camminare in piazza nella sua città, quella del giornale, senza essere guardata come quella che ce l’ha col sindaco perché la libertà, lo diceva anche Martin Luter King, è un diritto.
Ma il sindaco è un uomo strano e quindi ancora non ci riesce.
Ma tanto Proserpina un giorno andrà a fare la giornalista in un’altra città.
L’ha detto il sindaco.
Non scritto, ma detto si.

Proserpina un giorno voleva sentirsi dire che è bellissima e quindi un giorno scrisse un post dove diceva “Ditemi che sono bellissima se no vi fulmino con le fiamme della mia coda!” e tutti, me compreso, scrivemmo che è bellissima.
Poi, gustato il sapore del potere, non contenta come un orso che assaggia il sangue, decise che voleva proprio sentirseli dire a voce e disse a tutti “E adesso voglio che lo diciate a voce” e tutti, me compreso, dicemmo a voce che è bellissima.

Proserpina è questo.
Una che quando dice una cosa la gente la fa.
Sindaco escluso.
E io che la conosco ma non lo dico nei colloqui di lavoro quando ci sono di mezzo testate di giornali, ne vado abbastanza orgoglioso, contento anche di avere un discreto materiale per i miei sogni erotici che la riguardano ma solo nel senso di attesa sempre disattesa che poi in fondo è il segreto dell’ammmmmore.

E in quelle sere nelle quali mi capita di riaprire quella cartella che c’ha dentro tutte quelle foto di tette io lo sento che in fondo qualche anno fa dalla mia porta non è entrata una tigre ma nemmeno una persona qualunque.

E in quelle sere a volte smetto di guardare quelle foto di tette e me ne frego se il sindaco sa leggere, se lei chiude il suo blog o no, se apre l’ennesimo blog-ritrovo che unisce tutti quelli uniti da quegli interessi comuni che li avevano fatti aderire a ciascuno dei blog-ritrovi precedenti che lei apre solo per vedere quanta gente riesce a spostare solo dicendolo per testare la sua prossima discesa in campo, e mi metto a guardare quel filmato che mi mandò, di pochi secondi, di quella Puglia, da parte di padre anche mia, nella quale un albero si muove, in silenzio, spinto dal vento.